Familiari Tragedie

L’espressione “tragedia  familiare”  ha  ormai  acquistato  uno  spazio  consueto  quanto  triste  nella cronaca italiana, mi sono così chiesto come riesca a scaturire così tanto interesse ed orrore. Vorrei portare l’attenzione del lettore su quanto tali termini siano in antitesi fra loro e quanto si leghino, ognuno, ad un immaginario tanto diverso. La famiglia ci fa pensare a quella solida struttura alla quale la società italiana ha fatto sempre affidamento e che, in molte occasioni, ha definito la nostra cultura come patriarcale o matriarcale. La tragedia ci riporta ai componimenti poetici dell’antica Grecia in cui personaggi più o meno mitici attraversavano drammi violenti spesso con epiloghi drammatici. Come  possono  essere  conciliabili  questi  due  termini  che  affondano  le  radici  in  mondi  tanto diversi?  Probabilmente in tale distanza risiede lo stupore che coglie l’osservatore ma anche la sua attrazione.Mi spiegherò meglio: nel tentativo di avvicinare “famiglia” a “tragedia”  ci  si  pone l’interrogativo su  come  possa  una  madre  uccidere  i  propri  figli  senza  aver  dato minimamente segnali predittivi; ci si chiede come la personalità di un padre di famiglia, appagata  socialmente  e  professionalmente,  possa  trasformarsi  in  una  psicopatia  acuta  e guidare la mano di un assassino verso i propri cari.L’assurdità di certe storie se da una parte ci disgusta dall’altra stimola la nostra curiosità che in alcuni casi può assumere connotati voyeuristici moralmente discutibili. L’ingenuo detective che è in ognuno di noi, nell’intento di trovare il colpevole di un omicidio, si orienterà quasi sicuramente fuori dalla famiglia cercando un individuo gretto e malvagio che nulla può avere che fare con il focolare domestico. L’apprendere che, la mano dell’assassino è la stessa che, fino a prima, aveva contribuito alla tutela ed all’amore delle vittime ci pone di fronte ad una profonda disillusione: gli aspetti cattivi non esistono solo fuori di noi, ma anche dentro di noi. Siamo così chiamati ad un lavoro con noi stessi: accettare una triste realtà che ci può riguardare da vicino.La psicoanalisi da più di cento anni propone una lettura disincantata e, se mi permettete, anche tremenda dell’individuo: egli non è sempre padrone delle sue azioni; Freud parlava di una terza rivoluzione dopo quella copernicana e darwiniana: la scoperta dell’inconscio. Per fare un esempio nel mondo della letteratura contemporanea compaiono numerose testimonianze di tale fattura; si pensi alle opere intensissime “Pastorale americana” o “La macchia umana” di Philip Roth, dove dietro un falso puritanesimo si nascondono orribili verità, e sappiamo quanto la società americana sia stata spesso e tristemente precorritrice della nostra realtà.Ma tornando a “Noi”, per disillusione, da non confondere con delusione (che è ben altra cosa), si  intende  un  percorso  faticoso  ma  evolutivo  del  bambino  che  decide  di  abbandonare  le proprie convinzioni fantastiche e fare i conti con la realtà. Ritengo che queste tragiche vicende, oltre a mettere in evidenza la instabilità dei legami e l’incoerenza delle famiglie moderne, mostrano una verità inconfutabile: la problematicità può riguardare ognuno di Noi, non solo qualcun altro.Lo psicoanalista che lavora con personalità molto problematiche sa bene quanto l’individuare aspetti meno buoni di se stessi, riconoscerli ed elaborarli, aiuta ad evitare agiti violenti.In una società carente del dialogo sociale ed interiore la notizia sconvolgente di una tragedia familiare diventa una pseudo-occasione per prendere contatto con realtà dolorose di noi stessi e degli altri.

Articolo pubblicato in Luglio 2014 dalla rivista periodica mensile
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