Il gioco nella continuità di spazio e tempo: una forma fondamentale di vita

 

Il mio intervento in questa giornata di studio è teso ad esporre il contributo fondamentale che Winnicott apportò nella storia della psicoanalisi relativamente al modo di concepire il gioco e di utilizzarlo nella pratica clinica e questo presuppone una considerazione preliminare ed indispensabile sugli oggetti e i fenomeni transizionali, perché è proprio dal momento in cui essi sono stati osservati e teorizzati che il significato del gioco ha acquistato una nuova coloritura ed ha portato a considerarlo “l’universale”, in quanto esso conduce alle relazioni di gruppo, può essere una forma di comunicazione in psicoterapia, facilita la crescita e pertanto la sanità. Da qui si è in un certo senso rovesciata la sequenza “psicoanalisi – psicoterapia – materiale di gioco – gioco”, poiché, come afferma lo stesso Winnicott, “la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri”.

Ugualmente importante, secondo il mio punto di vista, è anche fare una breve riflessione sul modus operandi di questo autore: nell’attività clinica, egli si poneva sempre l’obiettivo di entrare in ogni situazione senza le difese costituite dalle sue conoscenze, così da potersi esporre, per quanto possibile, al pieno impatto della situazione stessa: solo così divenivano realizzabili la scoperta e la crescita, in una sorta di processo creativo per sé come per i suoi pazienti. La chiave del suo lavoro in tal senso va cercata nella sua stessa personalità, nel suo modo di mettersi in relazione con gli altri e in tutto il suo stile di vita, come sottolinea la stessa moglie di Winnicott nell’illuminante prefazione di uno dei suoi scritti quando afferma che: “Fu la sua capacità di giocare, che non lo abbandonò mai, quella che lo portò inevitabilmente nell’area di ricerca che egli concettualizzò in termini di oggetti e fenomeni transizionali”. Capacità di giocare che equivale alla qualità della vita che permea tutti i livelli e tutti gli aspetti dell’esperienza relazionale, fino a comprendere quello più sofisticato in cui l’impulso distruttivo verso l’oggetto crea le qualità del mondo esterno, in quanto è la capacità di essere sempre distrutto a fondare la realtà dell’oggetto che sopravvive e che come tale viene percepito, a rinforzare il tono emotivo e a contribuire alla costanza d’oggetto. È chiaro che non ci si riferisce al gioco vero e proprio, ma alla capacità di operare in quella illimitata area intermedia in cui realtà interna ed esterna si combinano in un’esperienza vitale: è lì che l’individuo, che da bambino avrà potuto iniziare un rapporto di fiducia con il mondo esterno, dapprima attraverso gli oggetti transizionali, in seguito attraverso il gioco ed il giocare immaginativo condiviso, troverà la dirompente spinta ad esplorare e ad approfondirsi nella vita culturale. In un primo tempo egli non sa distinguere il suo proprio sé (a cui appartiene la piccola mano posata sul seno della madre) da ogni altra cosa, che appartiene alla categoria del non-me (in cui è incluso lo stesso seno materno): questo perché nel suo mondo, senza tempo e senza confini, lo spazio interno ed esterno sconfinano e si fondono. Vi è un terzo spazio, però, che si va determinando in questa fusione ed è la zona in cui l’interno si sovrappone all’esterno, ossia l’ambito felice in cui esiste un’unità diadica, dove madre e bambino continuano a rimanere uniti. Così, in un continuum tra soggettivo ed oggettivo, il bambino lattante confonde sé e la madre, i morsi della fame che provengono dall’interno e la soddisfazione (e la non soddisfazione) che proviene dall’esterno perchè non ha ancora integrato questi stati affettivi in una configurazione unitaria.

In “Gioco e Realtà”, Winnicott esplora estesamente quella che egli delinea come la fase “transizionale” dello sviluppo dell’Io, durante la quale il bambino costruisce una specie di ponte tra pura soggettività e realtà oggettiva, condivisa. Per riuscire in questo arduo compito, nel contesto di fenomeni definiti transizionali, ossia esperienze funzionali che affiancano altre di tipo auto-erotico (come quella di succhiarsi il pollice), il bambino fa uso di qualcosa che appartiene al mondo esterno, magari un oggetto soffice come un orsacchiotto o l’angolo di una coperta, o ancora una parola, una tonalità o un’abitudine, il cui uso diventa di importanza vitale al momento di andare a dormire o al momento in cui egli si sente solo, ed è una difesa contro l’angoscia, soprattutto di tipo depressivo. Questo oggetto amato (definito transizionale) è per il bambino una magica rappresentazione dell’ambito felice in cui egli era fuso con la madre; ad esso si attacca mentre si addormenta per trovare conforto, per ricercare un’immagine di lei, che egli potrà tenere con sé di continuo, evocando così l’originaria e rassicurante unione e permettendo alla madre reale di allontanarsi, mentre il bambino se la tiene vicino simbolicamente. È chiaro quindi che l’oggetto transizionale viene messo in rapporto sia con l’oggetto esterno (seno della madre) che con gli oggetti interni (seno introiettato e controllato magicamente), ma viene distinto da entrambi, esso è dunque qualcosa di separato dal proprio corpo, è un “non-me”, una parte del modo esterno. Poi, man mano che il bambino impara a riconoscere la propria esistenza separata, egli impara a riconoscere come tale anche quella della madre: dunque è vero che l’oggetto è simbolo di qualche oggetto parziale, quale il seno, ma il punto essenziale non è il suo valore simbolico quanto il suo essere reale. È un’illusione, ma è al tempo stesso qualcosa di reale, in quanto si colloca in un’area intermedia di esperienza a cui contribuiscono la realtà interna e la vita esterna, nell’ambito di uno stadio in cui il bambino sta tra l’incapacità e la sua crescente capacità di riconoscere e accettare la realtà, condizione resa possibile dalla speciale attitudine della madre di adattarsi ai suoi bisogni, concedendogli così l’illusione che ciò che egli crea esista realmente. È un’area che ha che fare con l’esperienza vivente e che non è né sogno né relazione con l’oggetto, ma contemporaneamente è anche entrambi. Questo è il paradosso essenziale, e, negli scritti sui fenomeni transizionali, la parte più importante è proprio l’affermazione che dobbiamo accettare il paradosso, non risolverlo.

Winnicott vede proprio in questa illusione la prima idea del gioco. Egli inizia la sua formulazione teorica affermando, in contrasto con i precedenti scritti psicoanalitici, che, quando un bambino gioca, l’elemento masturbatorio è essenzialmente assente, ed ipotizza che il gioco abbia un tempo e un luogo, che non è “all’interno” ne “al di fuori”, quindi nel mondo che l’individuo riconosce come effettivamente esterno. Più precisamente, per capire dove il gioco si inserisce all’interno del processo di sviluppo, egli postula una “Teoria del gioco”, che prevede diversi stadi. All’inizio, il lattante e l’oggetto sono fusi l’uno con l’altro e il modo in cui egli vede l’oggetto è soggettivo. Poi l’oggetto viene ripudiato, riaccettato e percepito obiettivamente: si tratta di un processo molto complesso, che dipende in buona parte dal fatto che vi sia una madre pronta a partecipare, ossia ad essere in uno stato di “va e vieni”, quindi essere quella che il bambino ha la capacità di trovare e, alternativamente, essere se stessa in attesa di essere trovata. La fiducia nella madre produce qui un’area di gioco intermedia, in cui si origina l’idea del magico e la quale consiste in uno spazio potenziale tra la madre e il bambino, che è fuori dall’individuo, ma non è il mondo esterno e allo stesso tempo non è la realtà psichica interna. Qui il bambino raccoglie oggetti e fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna e personale, manipolandoli al servizio del sogno. Si tenga presente che il gioco in questa teorizzazione è estremamente eccitante e che la sua caratteristica essenziale è il piacere, ma non perché siano coinvolti gli istinti, quanto piuttosto per la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali: questa è la precarietà del magico stesso, che sorge nell’intimità, in un rapporto che si riconosce come “attendibile”. La soddisfazione in esso dipende dall’uso dei simboli, per cui “questo” sta per “quello”, quindi -se quello è amato, questo può essere usato e goduto. Se quello è odiato, questo può essere ferito, ucciso e quindi riparato e ferito di nuovo-. Ed è specialmente nel maneggiare l’aggressività e la distruttività che il gioco ha una funzione vitale, che si esplicita quando il bambino raggiunge la capacità di godere della manipolazione dei simboli.

Il gioco è, inoltre, un’elaborazione immaginativa che riguarda le funzioni del corpo in relazione agli oggetti e all’angoscia. Gradualmente, infatti, man mano che la personalità del bambino diventa più complessa, con  una realtà personale ed interna, esso diventa un’espressione, in termini di materiali esterni, delle relazioni interne e delle angosce. Questo conduce all’idea del gioco inteso come un’espressione dell’identificazione con le persone, gli animali e gli oggetti dell’ambiente inanimato. A questo punto il bambino può stare da solo, alla presenza di qualcuno. Egli gioca basandosi sull’assunto che la persona che egli ama sia disponibile e continui ad esserlo quando viene ricordata e questa persona viene percepita da lui come se rispecchiasse ciò che avviene nel gioco. Lo stadio successivo è quello di ammettere una sovrapposizione delle due aree di gioco. Inizialmente è la madre che gioca col bambino, attenta ad inserirsi nelle sue attività, poi introduce il suo proprio gioco, trovando delle variazioni nel modo che il bambino ha di accettare o rifiutare idee che non sono sue. In questo modo si apre la strada per giocare insieme in un rapporto. Ed è in quest’area di sovrapposizione tra il gioco del bambino e il gioco dell’altra persona, che vi è, secondo Winnicott, la possibilità di introdurre degli arricchimenti: il terapeuta, in particolare, si occupa dei processi di crescita del bambino e di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo che possono rendersi manifesti, questo grazie alla psicoanalisi. Ma l’autore sottolinea come il gioco sia di per sé una terapia, ossia fare in modo che i bambini siano messi in condizione di giocare è già una psicoterapia, immediata ed universale, che include lo stabilirsi di un atteggiamento sociale positivo verso il gioco, atteggiamento che deve comprendere il riconoscimento che il gioco può sempre diventare un fatto pauroso, anzi, i giochi e la loro organizzazione devono essere considerati come parte di un tentativo teso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco. Per questo l’adulto deve essere disponibile quando il bambino gioca, ma senza inserirsi necessariamente; piuttosto, quando è costretto a mettersi nella posizione di animare il gioco, questo significa che il bambino non è in grado di giocare “in senso creativo”, secondo il significato che Winnicott dà a tale termine. Egli afferma a tal proposito che il punto essenziale di quello che lui vuole comunicare è che il gioco è un’esperienza sempre creativa, che si svolge nel continuum spazio-temporale, e in quanto tale è una forma fondamentale di vita. Esso è dunque, prima di tutto, un’azione creativa che si produce in termini di realtà (il proprio corpo e gli oggetti a portata di mano) e a condizione che il bambino sia diventato generalmente fiducioso attraverso adeguate esperienze di buon accudimento. Per contrasto, un accudimento inadeguato produce mancanza di fiducia e fa diminuire la capacità di giocare.

Dunque, per dirla come Winnicott, il gioco dei bambini ha in sé ogni cosa, anche se, naturalmente, lo psicoterapeuta lavora sul contenuto del gioco e, in un’ora stabilita, ciò che si manifesta è una costellazione più circoscritta e precisa rispetto a quella che si manifesterebbe in un tempo illimitato e nell’ambiente domestico. Ma questo può comunque aiutarci a comprendere che alla base del lavoro psicoterapico c’è il gioco del paziente, cioè un’esperienza creativa che prende spazio e tempo e che è profondamente reale per lui. Questa osservazione ci aiuta anche a comprendere per quale ragione, secondo Winnicott, la psicoterapia possa essere fatta anche senza lavoro interpretativo, poichè il rischio è che l’interpretazione diventi indottrinazione e produca resistenza qualora venisse fatta “fuori dalla compiutezza del materiale”, ossia fuori dall’area di sovrapposizione del gioco in comune del paziente e dell’analista. Dunque, perché essa possa far progredire il lavoro terapeutico, deve esserci un gioco mutuo, spontaneo, e non compiacente o acquiescente, considerando sempre come momento significativo, non già quello della seppur brillante interpretazione dell’analista, ma quello in cui è il bambino a sorprendere se stesso. La psicoterapia riguarda quindi due persone che giocano insieme e può avere luogo dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella dell’analista, per cui, quando il gioco non è possibile, il lavoro svolto dal terapeuta deve avere come obiettivo quello di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare ad uno in cui ne è capace.

È evidente, come Winnicott stesso comunica, che ciò che viene detto sul gioco dei bambini può essere applicato anche agli adulti, solo che in questo caso il fatto è più difficile da descrivere poiché il materiale del paziente si manifesta principalmente in termini di comunicazione verbale. Anzi, secondo l’autore, è lecito aspettarsi di trovare il gioco nell’analisi degli adulti in modo non meno manifesto di quanto lo sia nel lavoro con i bambini. Esso si esplicita, per esempio, nella scelta delle parole, nelle inflessioni della voce, e soprattutto nell’umorismo. Solo che in questo caso ci si aspetta di doverlo lasciare da parte, per basare il proprio lavoro sui sogni, sulle allucinazioni e sulle fantasie. Al contrario, l’autore sottolinea il riconoscimento dell’importanza che il gioco ha nell’analisi degli adulti, dato che esso è cosa differente dalla fantasia e dal sogno. Un punto apparentemente ovvio ma profondamente rilevante è che nel gioco, benché si debba lasciar cadere una parte considerevole delle proprie fantasie, che non può essere condivisa con altri, c’è molto da guadagnare dalla sovrapposizione con le fantasie altrui, cosicché vi è sempre un’esperienza condivisa, anche se essa copre solo un’area limitata dell’attività fantastica.

Per concludere, estremamente interessante è sottolineare, nel pensiero winnicottiano, il passaggio che connette il gioco con l’attività creativa e la ricerca di sé. Attraverso il gioco, infatti, il bambino si occupa creativamente della realtà esterna, proprio perché giocare è un modo particolare di agire, di trattare la realtà in forma soggettiva. Questo conduce alla vita creativa e alla capacità di sentirsi autentici e di sentire che la vita può essere usata e arricchita. Senza il gioco, il bambino non può vedere il mondo creativamente e di conseguenza viene respinto indietro, alla compiacenza e a un senso di futilità, oppure all’uso di soddisfazioni istintive dirette. Dunque, proprio come il bambino piccolo, che stringendo l’oggetto amato, lo usa per ammettere e per colmare al tempo stesso lo spazio che ormai esiste tra sé e la madre, così, quando si parla di bambini più grandi, la separazione viene evitata colmando lo spazio potenziale proprio con il gioco creativo, l’uso dei simboli e con tutto ciò che, alla fine, porta ad una vita culturale.

Ma cos’è per Winnicott la creatività? A tratti essa sembra riferirsi ad una modalità di guardare al mondo esterno, a tratti invece ad una maniera di fare le cose, deliberatamente, e qualche volta semplicemente alla capacità di godere attività corporee, come “godere nel respirare”…per trovare il filo conduttore di queste affermazioni possiamo far riferimento a quello che dice quando afferma che “la creatività è un universale, appartiene al fatto di essere vivi”, dunque essa non è solo percepire le cose in un certo modo ma mettersi deliberatamente in rapporto con il nostro percepire. Questo è allora un percepire che ha in sé un elemento: “Io sono” e ciò porta poi ad un altro termine spesso usato: “il sé”. Winnicott asserisce che il senso di sé si forma soltanto attraverso un’occasionale e informe attività o attraverso un gioco rudimentale, e aggiunge che è soltanto nell’essere creativi che si scopre se stessi, che si entra in contatto con il nucleo del proprio sé. Ecco perché egli ritiene fondamentale, nella psicoterapia, fare qualcosa per mettere il paziente in condizioni di giocare, perché è proprio mentre egli gioca che è creativo, in quanto il cercare può venire soltanto da un funzionare indefinito o dal giocare rudimentale, come se avesse luogo in una zona neutra. È qui che può comparire ciò che noi chiamiamo “creativo”. Questo, se rispecchiato ma soltanto se rispecchiato, diventa parte di una personalità individuale organizzata e alla fine fa sì che l’individuo sia ritrovato e sia capace di postulare l’esistenza del sé. Questo dà un’indicazione importante per il procedimento terapeutico, cioè fornire l’opportunità di un’esperienza informe e di impulsi creativi, motori e sensoriali, che sono poi la sostanza del gioco. Ed è dunque sulla base del gioco che viene costruita l’intera esistenza dell’uomo in quanto esperienza. Ognuno di noi fa, infatti, esperienza della vita nell’area dei fenomeni transizionali, quindi nello sconfinare della soggettività e dell’osservazione oggettiva, in un territorio che è intermedio tra la realtà interiore -dell’individuo- e la realtà condivisa -del mondo-.

Commenti chiusi