Il sentimento di gelosia e di invidia nella figura mitologica di Giunone

Vorrei iniziare questo contributo invitando noi tutti a calarci nel “tempo del mito”. Un tempo dotato di un doppio registro: da un lato, infatti, conserva dovunque una certa indeterminatezza, quasi magica, configurandosi per questo come il tempo del “molto tempo fa”. Da un altro lato, non possiamo trascurare che le vicende narrate non possono divergere troppo da quelle del tempo reale, né i personaggi da quelli umani, poiché per la coscienza greca, l’esistenza degli eroi e dei miti divini è legata al ricordo della civiltà micenea che è realmente esistita.

Il componimento drammatico, di cui tenterò di leggere un breve passo, è stato scritto da Vincenzo Monti, in occasione delle nozze tra il principe di Teano ed Elena Albani, nel 1779 e s’intitola Giunone Placata. Danno occasione alla vicenda le note gelosie di Giunone e in esso parlano Giunone, Giove e Amore: in prima battuta la dea s’infuria ferocemente quando vede Giove in compagnia di Amore e, sospettando che l’occasione del loro incontro sia l’ennesimo tradimento del suo congiunto, si lascia andare ad accuse pesanti, minacciando una spietata vendetta verso la rivale di turno. L’unione di Giove e Amore, però, non ha come motivazione il consumarsi di un tradimento, ma è legata semplicemente alla necessità che Giove presieda alle nozze suddette. Dunque l’ira di Giunone questa volta può placarsi quando la vera ragione viene svelata. In questo passo Giunone, infuriata, risponde a Giove che le chiede “candidamente” il motivo della sua rabbia.

“La chiedi, ingrato?

Fin da quel giorno che per mia sventura

Consorte il ciel che mi salutò di Giove,

Dì, qual pegno, quai prove

Ebbi dell’amor tuo? Quando s’intese

Che giammai tu donassi a me un pensiero?

Un premuroso, in vero,

Sposo amante tu sei: vedova e sola

Condannarmi a stancar le fredde piume;

Di mesi e d’anni il giro

Viver lungi da me; poi se ritorni,

Sollecito, inquieto, intollerante

Dopo d’un breve istante

Di nuovo abbandonarmi,

Fuggirmi, disprezzarmi;…e mi dimandi

Perché sdegnata io sono? È questa, infido,

E’ questa la mercede

Che tu rendi al mio amore, alla mia fede?”

 

Nella mitologia classica affrontare il tema della gelosia stimola un’immediata associazione con la dea gelosa per eccellenza, Era, chiamata dai latini Giunone, la quale veniva continuamente messa alla prova dai ripetuti tradimenti di Zeus, il Padre degli Dei e che, per questo, era inasprita nei confronti di tutte le donne, non meno che delle altre dee, sue potenziali rivali in amore.

Qualche breve cenno sull’etimologia del nome ci fa notare come la dea latina Giunone Iu-no contenga la stessa radice del nome Iu-piter (Giove), così mentre Iupiter è il Re del cielo e degli dei, Giunone ne è la regina o il corrispettivo femminile. Corrisponde alla dea greca Era, ma il culto di Giunone era già diffuso prima che avvenisse questa identificazione. Sotto molti aspetti, Giunone rappresenta il contraltare di Giove nel pantheon romano: come Giove era il protettore del sesso maschile, così Giunone lo era del sesso femminile. Si riteneva, infatti, che essa accompagnasse ogni donna nel corso della vita, dalla nascita al momento della morte. Il nome greco Hera significa propriamente “la signora” ed indica la regina degli dei, figlia di Crono e di Rea e sorella, oltre che sposa, di Zeus. Fu allevata da Oceano e Teti e successivamente divenne sposa di Zeus. Numerose versioni del mito ricordano il modo in cui i due fratelli giunsero alle nozze, le quali rappresentano l’unica cerimonia nuziale divina che si svolse con il concorso di tutti gli dei.

Ho ritenuto dunque interessante proporre e tentare una riflessione sulla figura mitologica di Era, sulla sua complessità in relazione al tema da noi affrontato e sul ruolo che essa ha nel rapporto, alquanto tormentato, con il suo consorte. Era è soggetta alla volontà del re degli dei, agisce talvolta come una divinità indipendente sorretta da una forte ambizione, non esita ad opporglisi e a darsi da fare contro la sua volontà, anche di nascosto da lui. Tuttavia, per la sua inferiorità, la tradizione ce la presenta come generalmente punita per questa opposizione. Nell’Iliade Omero la descrive di carattere difficile: la sua gelosia, ostinazione, litigiosità fanno talvolta tremare persino Zeus. Al suo carattere aggressivo si attribuiscono i frequenti litigi tra lei e Zeus; in un’occasione, con l’aiuto di Poseidone e Atena, arriva al punto di progettare di mettere Zeus in catene, il quale passa talvolta alle vie di fatto. Una volta, addirittura, la appende alle nuvole con le mani incatenate e con due incudini pendenti dai piedi, per punirla dell’odio con cui aveva perseguitato Eracle, l’ “eroe divino” figlio di Zeus e della mortale Alcmena.

La gelosia di Era è certamente dettata dall’amore ed è ispirata dal tradimento amoroso e per questo, spesso, arriva ad assumere toni forti e anche drammatici, che colorano le reazioni di vendetta verso le amanti di Zeus e quelle di ostilità verso i figli che Zeus ebbe da donne mortali. Ricordiamo per esempio la vicenda di Semele che, amata da Zeus, concepisce un figlio. Era, accecata dalla gelosia, per vendicarsi, si trasforma in Beroe, la vecchia nutrice della ragazza, e la induce a chiedere a Zeus di apparirle nello stesso splendore con cui di solito si presenta davanti a Era. Inutilmente Zeus la mette in guardia davanti ai rischi che la sua richiesta comporta, ma l’insistenza di Semele dovuta all’azione persuasiva di Era e la promessa fattale da Zeus in precedenza di esaudire ogni sua richiesta, costringono il dio ad accettare e a presentarsi a lei nella forma con cui di solito appare alla sua divina sposa, come dio del fulmine. Come previsto, Semele non può sopravvivere a quella vista e viene annientata dalla folgore del dio. Zeus riesce però a salvare il bambino che Semele porta in grembo, se lo cuce dentro una coscia e lì lo tiene fino al momento della nascita: si tratta del piccolo Dioniso, che proprio grazie ai fulmini paterni diventa immortale. Non contenta di ciò, Era continua la sua persecuzione con Dioniso che, una volta adulto, viene reso folle e costretto a cominciare una serie di peregrinazioni, che lo portano attraverso le più remote contrade della terra. Particolarmente crudele è la persecuzione che Era riservò ad un’altra delle amanti di Zeus: Latona, che era una Titana, madre di Apollo e Artemide. Vagando da un luogo all’altro per sfuggire alle ire della dea, ella giunge infine a Delo, un’isola fluttuante sul mare. Zeus incatena l’isola al fondo del mare con catene di diamante, in modo che possa offrire un luogo sicuro di rifugio e di sosta, soprattutto per permetterle di dare alla luce i due figli, frutto del rapporto con Zeus. Ma, per volontà di Era, Latona avrebbe potuto partorire solo in un luogo dove non fosse mai giunto un raggio di sole, o, secondo un’altra versione del racconto, Era proibisce a tutte le terre di ospitare Latona per il parto: nessuna località osa accogliere un evento divino così grandioso, e anche Delo accetta solo dopo che Latona giura che Apollo lì avrebbe eretto il proprio tempio.

L’interesse per la figura mitologica di Era nasce anche dalla presenza in essa di un altro aspetto interessante, che è concomitante al sentimento di gelosia, ovvero il sentimento di invidia, nei confronti della stessa figura di Zeus. Invidia perchè? Nell’Iliade Era è trattata con la stessa reverenza che viene riservata al suo augusto consorte: Zeus stesso ascolta i suoi consigli e la mette al corrente dei propri pensieri. Rispetto a lui, tuttavia, essa è inferiore, come poteri e come autorità, e gli deve obbedire incondizionatamente, al pari degli altri dei dell’Olimpo, pur mettendolo seriamente e maggiormente in difficoltà. Ma, ad un’analisi più sottile, ciò che più di tutto suscita l’invidia profonda di Era, al di là della sua obiettiva inferiorità che comunque non va a scalzare il suo essere “regina degli dei”, sembra essere il carattere universale e, allo stesso tempo, polimorfo della potenza di Zeus. Esso, infatti, è il re dell’universo intero che garantisce l’ordine in tutti i settori dell’esistenza e unisce alla sovranità la giustizia e la sapienza. La sua posizione è necessariamente sovrana, ma non vìola l’autonomia delle altre divinità: tutti gli altri grandi dei e dee sono suoi fratelli, sorelle, mogli, figli e figlie. Le sue innumerevoli vicende amorose, tanto con dee che con donne mortali, servono a popolare l’Olimpo e la terra. Quest’ultima è abitata da eroi, dai quali spesso discendono le stirpi umane: per questo motivo Zeus è “padre degli dei e degli uomini”. Questo, a sua volta, è unito al carattere polimorfo della sua capacità di trasformarsi in varie figure divine e di assumere persino sembianze umane. Tutto ciò contribuisce certamente a mettere in evidenza la sua irresistibile potenza che gli permette, volendo, allo stesso tempo, di sbarazzarsi di tutti, sottrarre le mogli ai loro mariti, le fanciulle ai loro padri e persino i fanciulli agli altri dei che facevano loro la corte. Era è sicuramente affascinata ma anche profondamente invidiosa di questo aspetto indiscutibilmente unico del suo consorte.

Da quanto detto possiamo notare come nel personaggio mitologico di Era è evidente che coesistano due sentimenti, ugualmente intensi e profondamente diversi: un violento sentimento di gelosia, legato soprattutto a situazioni reali di tradimento amoroso, ed un sottile quanto pungente sentimento di invidia, legato ad una inferiorità percepita, ma non accettata come inesorabile condizione senza la quale non sarebbe stato possibile lo svolgersi dei fatti. Per quanto diversi, questi due sentimenti spesso si intrecciano, si mescolano fino quasi a confondersi. Ma quanto le sue reazioni di vendetta sono sostenute della gelosia amorosa e quanto dall’invidia?

Nella condizione umana e, precisamente, nel rapporto di coppia dove quindi esiste un’individuazione dei due soggetti, quando possiamo parlare di gelosia? quando di invidia? E, soprattutto, in che modo quest’ultima si inserisce nel processo di integrazione dell’identità?

Melanie Klein, in Invidia e gratitudine, afferma che la gelosia è basata sull’amore e mira al possesso dell’oggetto amato e alla rimozione del rivale. Essa appartiene ad un rapporto triangolare e quindi ad un periodo della vita in cui gli oggetti sono chiaramente riconosciuti e differenziati l’uno dall’altro. L’invidia, invece, è parte di una relazione a due, in cui il soggetto invidia l’oggetto per qualche suo possesso o qualità: non è necessario alcun altro essere vivente. Dunque, se la gelosia implica un rapporto con un oggetto intero, l’invidia viene sperimentata essenzialmente in termini di oggetti parziali, anche se persiste successivamente nei rapporti con gli oggetti interi.

La gelosia amorosa, in particolare, non è una reazione così semplice come spesso si è portati a credere, e non solo per il discorso relativo al complesso di Edipo e quindi a quella prima esperienza di rivalità sessuale nella nostra infanzia. Certo, nella misura in cui la gelosia è una reazione di odio e aggressività ad una perdita reale o minacciata, essa è abbastanza semplice ed inevitabile. Ma una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione che inevitabilmente l’accompagna, per aver danneggiato la fiducia in se stessi e il senso di sicurezza. La perdita di fiducia in se stessi non è sentita consciamente da una persona gelosa, che si sente inevitabilmente umiliata e inferiore e anche indegna e colpevole. Credere di non essere amata per lei può significare di non essere degna di amore. La tristezza e la sensazione di essere indifesa di fronte al pericolo che questo pensiero di essere non amabile fa sorgere sono insopportabili: questo spiega la torturante amarezza della gelosia, che la persona si sforza di mitigare condannando e odiando il rivale. È chiaro come qui si ripresenti, dalla primissima infanzia e con tutti i suoi pericoli, la percezione della dipendenza che mette in moto immediatamente il meccanismo della proiezione.

Come mette in luce l’allieva della Klein Riviere in Amore odio e riparazione, esiste anche una gelosia paranoide. Comunemente, il geloso si sente derubato della persona amata; quando però vi sono una disperazione e un dubbio così profondi sulle proprie capacità di amore e di bontà, il sentimento di essere derubato diventa un sentimento paranoide, tanto da sentirsi all’interno completamente in balìa del male, senza avere i mezzi per contrapporsi ad esso.

Sempre dalla Klein apprendiamo che la strada verso l’invidia può essere battuta da forti sentimenti di avidità, la quale mira al possesso di tutta la bontà che può essere estratta dall’oggetto, senza considerarne le conseguenze: la possibile distruzione dell’oggetto e il deterioramento della sua bontà. L’invidia tende all’essere buono come l’oggetto, ma quando questo è sentito come impossibile, tende a guastare la bontà dell’oggetto, per eliminare la sorgente dei sentimenti invidiosi. È questo aspetto devastante dell’invidia che è così rovinoso per lo sviluppo, dal momento che è proprio la sorgente della bontà da cui il bambino dipende che diventa cattiva e, di conseguenza, non è possibile compiere introiezioni buone. Sebbene essa derivi da primitivo amore e ammirazione, ha una componente libidica meno forte dell’avidità ed è pervasa dall’istinto di morte. Essa si mette in moto non appena il bambino si rende conto che il seno è sorgente di vita e di ogni conforto. L’esperienza beata della gratificazione che questo oggetto meraviglioso può dare aumenta il suo amore per esso, ma la stessa esperienza muove in lui anche il desiderio di essere egli stesso la sorgente di tale perfezione: egli sperimenta così penosi sentimenti di invidia.

Come può allora l’invidia, in quanto emozione primitiva e fondamentale, più precoce della gelosia,  e caratteristica di un assetto mentale meno organizzato, riuscire ad inserirsi in maniera sufficientemente armonica nel processo di integrazione dell’identità?

Il sentimento di invidia nasce dalla relazione d’amore con l’oggetto desiderato, cioè con aspetti che vengono visti nell’altro, aspetti che si amano, che si ammirano e con cui si desidera essere in contatto per possederli. Quando l’invidia diventa pensabile, consapevole, lascia il posto a dolorosi sentimenti di mancanza. Essa spinge l’invidioso a cercare il contatto con l’oggetto invidiato poiché avidamente considera gli aspetti proiettati nell’altro fonte della propria vitalità: nel contatto c’è tutto quello che egli considera indispensabile per vivere. La funzione di ciò è arrivare ad appropriarsi delle qualità dell’oggetto invidiato. Con la proiezione di aspetti vitali sull’oggetto invidiato, però, la mente dell’invidioso sente, da una parte, l’oggetto sempre più vitale e, dall’altra, gli sembra sempre più lontana la possibilità di appropriarsi di queste qualità. Il suo mondo interno gli appare sempre più svuotato. La frustrazione che nasce dalla ricerca di aspetti che vengono visti appartenenti ad altro da sé, provoca forti sentimenti di perdita e disperazione e questo, a sua volta, aumenta l’intensità del sentimento d’invidia.

L’oggetto invidiato è l’oggetto amato ed idealizzato che diventa odiato poichè pone di fronte all’impossibilità di possederlo e dunque alla propria incompletezza: ecco perchè si distrugge. Il senso di colpa è proprio di questi processi e di situazioni meno integrate, dove i sentimenti sono più intensi e primitivi e appare un’angoscia persecutoria. È evidente, dunque, che se l’invidia non viene integrata e modulata con altri aspetti meno distruttivi va a danneggiare anche gli aspetti che sono vitali.

Hanna Segal propone la possibilità di integrazione e trasformazione del sentimento di invidia: nella posizione depressiva l’invidia viene modificata dall’amore e diventa una componente normale della gelosia edipica, trasformandosi in sentimenti integrati di rivalità ed emulazione. Nella condizione originaria del neonato, infatti, la gratificazione sperimentata al seno stimola ammirazione, amore e gratitudine, oltre che invidia. Non appena l’Io comincia ad integrarsi questi sentimenti entrano in conflitto, ma se l’invidia non è dominante, la gratitudine supera e modifica l’invidia. Sentimenti d’invidia relativi all’oggetto primario rimangono sempre, anche se indeboliti. Una parte di essi viene spostata dall’oggetto primario sul rivale, fondendosi così con i sentimenti di gelosia verso la rivale. In particolare, l’invidia del seno è spostata sul pene del padre, aumentando la rivalità con lui. L’invidia che rimane diretta all’oggetto primario, quando non è più sentita come distruttiva, diventa la base dell’emulazione e della rivalità con l’oggetto primario, in un modo egosintonico che non provoca sentimenti di colpa e persecuzione.

Nel processo di trasformazione dell’invidia in un sentimento che comprende la dimensione edipica, e quindi una strutturazione dell’Io più evoluta ed integrata, un passaggio fondamentale è quello che riguarda la possibilità che l’invidia si renda consapevole, successivamente, pensabile e, infine, dicibile. Nella misura in cui cresce il desiderio di contattare gli aspetti invidiati e di fronte ad un senso di frustrazione si può avviare un processo che permette al soggetto di contattare, nel rapporto di coppia, il bisogno di sentirsi scelto dall’oggetto amato così come lui si rappresenta e com’è veramente: mancante, reale, non idealizzato. Questo è possibile se si realizza la condizione di poter formulare una fantasia di “uccisione dell’oggetto invidiato”, che rappresenta gli aspetti idealizzati. La fantasia ha la funzione di poter uscire dai sentimenti dolorosi di mancanza, frustrazione ed impotenza: il superamento di questi sentimenti penosi permette l’accesso alle proprie risorse e questo può rappresentare il punto di partenza per un processo di gratificazione che consiste nel contattare aspetti di sé fino ad allora sconosciuti.

Da quanto esposto, sembra chiaro che la gelosia è da inserire in una condizione di maggior integrazione dell’identità, dove gli oggetti sono chiaramente distinti e dove esiste una situazione di triangolarità. L’invidia appartiene invece ad una situazione più precoce di rapporto duale in cui gli oggetti sono parziali. Essa nasce dalla mancanza dell’oggetto amato e idealizzato: il suo aspetto più devastante risponde, dunque, a un tentativo di superare forti sentimenti di frustrazione. In tutto ciò l’Io si impoverisce. Ciononostante, risulta essere capace di azioni violente e distruttive nei confronti dell’oggetto. Le stesse azioni violente e distruttive, magari con una coloritura più vendicativa, di cui è capace anche il geloso, pur se connotato da un assetto mentale maggiormente organizzato.

Alla luce di quanto detto, vorrei concludere stimolando una riflessione sulla figura mitologica da cui siamo partiti: Era, la regina degli dei e delle dee, colei che abbiamo definito come la dea gelosa per eccellenza. Cosa muove veramente e più di ogni altra cosa Era nei suoi piani di vendetta furibonda? Si tratta di un forte sentimento di gelosia dettata dai tradimenti amorosi? Oppure, di un intenso quanto radicato sentimento di invidia nei confronti di Zeus e di ciò che lei non avrebbe mai potuto avere?

Bibliografia

Amore odio e riparazione, Melanie Klein, Joan Riviere, 1969, Casa Editrice Astrolabio
Eroi e Dei dell’antichità, I Dizionari dell’Arte, Lucia Impelluso, 2002, Electa
Dizionario di Mitologia, Anna Ferrari, 2006, UTET Libreria
I Greci e gli dei, Angelo Brelich, 1985, Liguori Editore
Introduzione all’opera di Melanie Klein, Hanna Segal, 1964, Martinelli Editore
Mitologia e significati delle presenze, luoghi e viaggi ideali nel mondo antico, Doriano Modenini, 2000, Spazio Tre
Scritti psicoanalitici, Hanna Segal, 1981, Casa Editrice Astrolabio

 

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