“Il riconoscimento del lavoro o dell’opera svolta può essere reinserito dal soggetto nel registro della costruzione della sua identità. E questa fase si traduce affettivamente in un senso di sollievo, di piacere, a volte in una sensazione di leggerezza, persino di esaltazione. Allora il lavoro si inserisce nella dinamica della realizzazione di sé. L’identità costituisce l’armatura della salute mentale, e non c’è crisi psicopatologica che non sia imperniata su una crisi di identità. Questo è ciò che conferisce al lavoro la sua dimensione propriamente drammatica.”
Christophe Dejours, “L’ingranaggio siamo noi”, 2000
ELABORATO TRATTO DAL CONVEGNO “L’IMPRENDITORE IN CRISI: APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE PER IL BENESSERE SOCIALE”
Ritengo particolarmente suggestivo questo passaggio perché spiega in modo molto chiaro come il lavoro non sia mai neutro rispetto alla salute mentale:
se all’individuo mancano i benefici del riconoscimento del lavoro, egli può non accedere al senso del proprio operato cosi da essere riportato solo alla sua sofferenza.
Partendo da questa considerazione mi sono interrogata su un possibile confine tra l’individuo e l’imprenditore o, più in generale, il lavoratore; e se questa possibile esistenza possa funzionare da fattore protettivo nei confronti dell’individuo stesso, soprattutto quando “la crisi” (economica e globale) non è più solo un momento da attraversare ma una condizione in cui si è obbligati a stare, in cui cercare di sopravvivere. Una condizione che inevitabilmente obbliga a modificare il proprio assetto mentale all’interno dell’azienda, ma ancor prima una condizione che chiede di fare i conti sul modo in cui abbiamo costruito il rapporto con noi stessi, almeno fino a quel momento.
Quando parliamo di lavoro parliamo necessariamente di persone, ecco perché la funzione lavorativa non è circoscrivibile unicamente all’economia di un paese, ma apre un mondo di significati necessari al benessere dell’individuo e della popolazione tutta.
Scrittori e filosofi (Pirandello, Heidegger) ma anche studiosi del comportamento umano sostengono che l’identità di ogni individuo non sia qualcosa di rigido ed immutabile tanto che ogni soggetto è in continua ricerca della propria identità.
Lo psicoanalista Kohut parla di “oggetti sé”, definendo quei comportamenti, funzioni, ma anche oggetti fisici che consolidano l’identità di un individuo (Kohut,1984). Esempi (essere particolarmente influenzati da un oggetto esterno, il pc, o da un brand, Apple, fino ad appoggiare il proprio stare al mondo su quell’oggetto o marchio, sentirsi completati da questo, quasi fosse un prolungamento di se stessi. Questo può accadere anche con il lavoro: è lì che il ruolo dà una connotazione intima e strutturante la persona)
In parte, si tratta di un processo quasi inevitabile, nel senso che il lavoro, inteso come “realizzazione di un’opera per mezzo dei propri talenti”, non solo gratifica ma aiuta a costruire, indirizza il faticoso processo di individuazione di sé (dà equilibrio all’interno della propria soggettività).
Altro caso è se esso diventa un prolungamento della persona, di come quella persona sta al mondo: è qui che esso diventa un “oggetto sé”.
Cosa accade quando una crisi globale rischia di compromettere il ruolo lavorativo?
Casa accade quando all’interno di questa crisi individui che hanno costruito la loro identità sul ruolo lavorativo (inteso come oggetto sé) lo perdono improvvisamente?
Può succedere che il malessere economico diventi male di vivere, un male esistenziale, una depressione che attanaglia.
L’angoscia imprenditoriale e lavorativa diventa angoscia esistenziale, la crisi economica si tramuta in crisi personale.
La persona vive in un continuo stato di ansia e di paura di non farcela e di capitolare.
Nelle piccole aziende esiste spesso un rapporto molto stretto tra dirigente e dipendenti; un rapporto quasi familiare, a volte non scandito da un contratto ma da stima ed affetto reciproco. Tale situazione rischia di essere ancora più pericolosa per il benessere dell’imprenditore: alla perdita del proprio lavoro si somma il senso di colpa per inevitabili licenziamenti di dipendenti vissuti come figli o amici (di nuovo una sovrapposizione, una confusione di spazi in cui la persona rischia di percepirsi solo quando è unita ad altri e/o altro e quindi ruoli che fungono da prolungamenti).
L’angoscia per le richieste sempre più pressanti delle banche e dei fornitori che ora esigono pagamenti in anticipo, a differenza del passato quando lasciavano margini di tempo più tolleranti, diventa sentimento di assedio ma anche di impotenza: l’imprenditore non si sente più artefice del proprio destino. Se per una vita intera ha tenuto tutto sotto controllo, se fino a qualche tempo prima era consapevole che certe scelte imprenditoriali avrebbero avuto determinati effetti, oggi si sente in balia degli eventi. La ripresa economica, il rilancio commerciale li sente come conseguenza di eventi che prescindono dalla sua abilità, volontà e impegno. Egli sente di non avere più la possibilità (davanti a sé, agli altri) di non poter fare programmi, il presente (non tanto il futuro) è troppo incerto.
A quel punto, la sorte dell’azienda diventa un pensiero ossessivo che non da pace, soprattutto per coloro che hanno una conduzione personale di tutte le fasi del lavoro, il rimorso è percepito tutto su di sé.
C’è anche la questione dell’immagine: la “ragione sociale” spesso porta il nome dell’imprenditore e la storia di un’impresa si confonde con quella di una famiglia, essa rimanda alla figura di un capostipite, di una tradizione che rischia di finire da un giorno all’altro.
Ecco perché insieme alla paura del licenziamento e alla sensazione di un’imminente “chiusura”, ad incrinare il senso dell’identità c’è una storia di vita che finisce.
Vorrei adesso ricapitolare alcuni passaggi critici, che si muovono come punti nodali per l’imprenditore in crisi, io direi più in generale, per l’individuo in contatto con la sua dimensione lavorativa.
- La crisi aziendale o la perdita del lavoro mette in crisi l’individuo ma non crea direttamente una condizione patologica se non esiste una certa “vulnerabilità” a quel tipo di evento stressante, dove, con il termine stressante si intende tutto ciò che costringe l’individuo ad un processo di cambiamento.
- Questa vulnerabilità può essere causata da vari aspetti come un investimento emotivo diretto esclusivamente alla professione, una personalità bisognosa di gratificazioni professionali, ma soprattutto la necessità di un ruolo che definisca la propria persona. Il lavoro funziona, in questi casi, come un prolungamento della persona (oggetto-sé). Il cambiamento “imposto” dalla mancanza di lavoro, quindi, viene vissuto come traumatico poiché provoca una spaccatura, uno spartiacque esistenziale nella percezione della persona.
- Venendo a mancare “l’oggetto sé – lavoro” è quasi inevitabile una “crisi di identità” vissuta come cedimento delle proprie certezze e delle proprie capacità individuali. Se “individuo” e “ruolo professionale” si confondono fino a coincidere in modo rigido, il fallimento della propria professione diventa il “fallimento personale”.
- In tutto questo, gli scambi sociali subiscono una pesante caduta: l’individuo esce fuori improvvisamente da una dimensione relazionale precedentemente ricca e dinamica. Un imprenditore costretto a chiudere la propria azienda, sa di non avere più a disposizione uno spazio dove lo scambio di relazioni umane
- Ultima non per importanza è la questione legata alla percezione di una grave assenza: quella “istituzionale”, quella dello Stato, che sembra a volte dimenticare che i nostri padri costituenti hanno messo il lavoro in primo piano quando hanno deciso che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Lo Stato non offre ma richiede.
Individuo e imprenditore: è possibile pensare un confine?
Non è facile rispondere alla domanda che mi ero prefissata… forse anche questo elenco rischia di generalizzare una situazione che non può non essere colta e osservata nella sua unicità e complessità. Anche per questo forse è difficile pensare un confine tra individuo e imprenditore.
Tuttavia, predisporsi a pensare che è auspicabile e necessaria questa possibilità forse può servire a porsi delle domande quando non è troppo tardi.
Dr.ssa Anna Di Tullio