L’Odio per il diverso

 

 

…Oppure accadeva che non si
giungesse mai a una vera riconciliazione, che la mamma semplicemente mi
proteggesse di nascosto, mi desse qualcosa di nascosto, mi permettesse
qualcosa, e allora davanti a te ero di nuovo quell’essere sinistro,
quell’imbroglione cosciente della sua colpa che, per la sua nullità, poteva
giungere solo per strade tortuose anche a quello che riteneva un suo diritto.

Lettera al Padre – Franz Kafka

 

 

Come si origina la profonda venatura di odio che pulsa negli estremismi religiosi?  Cosa porta alcune etnie a difendere, con violenza e sangue, le proprie convinzioni di appartenenza? Come può un padre attentare alla vita della figlia perché, frequentando una diversa cultura, sente come propri valori e abitudini differenti? Come può un sentimento di odio trasformarsi in agito distruttivo annientando la vita stessa?

Rispondere a quesiti del genere sarebbe, più che velleitario, impossibile. Quello che possiamo proporci è, attingendo dal nostro istinto epistemofilico, di lasciare aperta la nostra disponibilità ad una lettura continua e mai sazia dei fenomeni.

Senza entrare in diretto contatto con tematiche così complesse, ed attraverso la ri-lettura di uno dei racconti di Franz Kafka (La Tana), ci prefiggiamo il compito di offrire al lettore uno spunto di riflessione su un particolare tipo di odio che può nascere tra culture.

L’autore Kafka, che ben si presta alla lettura del fenomeno, è stato reso celebre da romanzi pregni di consapevolezza di sé mista ad angoscia; nelle sue opere traspaiono fortemente l’insicurezza e l’insoddisfazione di un rapporto con la vita e con il corpo fortemente problematico. Nell’infanzia e nella giovinezza dello scrittore è noto il rapporto con il padre temuto ed odiato allo stesso tempo (si veda “Lettera al Padre” Kafka, 1919).

Nel racconto “La Tana” (Kafka, 1923), il protagonista rimane senza nome: non si riesce a discernere se si tratti di animale o essere umano. Egli è intento, morbosamente ed ossessivamente, a rendere il proprio rifugio sicuro da possibili minacce altrui, eppure tutto sembra disperatamente ma inevitabilmente manchevole. Tutto il racconto è denso di un’angoscia continua che non riesce ad avere fine: la preoccupazione che altri individui, non specificati, possano rompere l’idillio che egli ha intessuto con la propria abitazione. La tana ha una piazza principale, quasi al centro: una roccaforte, dove si raccolgono le provviste, avidamente possedute e conservate. La tana, in questo scritto, si presta simbolicamente ad essere associata all’utero materno; come in esso il feto si nutre, così senza di esso trova la morte.

Leggendo oltre, lo stesso protagonista si avvicina, per poi repentinamente allontanarsi, ad una consapevolezza della propria simbiosi con la tana. In questi momenti di insight si svela quanto l’odio nei confronti delle minacce esterne sia un proprio vissuto interno: “…avvenisse tutto ciò sicché finalmente potessi balzargli addosso furibondo, libero da ogni scrupolo, e morderlo, dilaniarlo, straziarlo, dissanguarlo e aggiungere il suo cadavere al resto della preda, ma soprattutto – questa sarebbe la cosa più importante – riessere finalmente nella mia tana, ammirare magari questa volta il labirinto, ma prima richiudere sopra di me la copertura di musco e riposare, penso, per tutto il resto della mia vita! Invece non viene nessuno e io devo affidarmi a me stesso. Pensando sempre e soltanto a queste difficoltà, perdo un poco della mia paura, non evito più l’ingresso nemmeno esteriormente, la mia occupazione preferita è di girarvi intorno, sembra quasi che io sia il nemico in attesa della buona occasione di irrompere con buon esito.” (Kafka, 1923). Il solo avvicinarsi all’uscita della tana provoca “l’impressione di arrivare in un’atmosfera di grande pericolo”, non c’è un motivo plausibile che giustifichi questo movimento verso l’uscita, se non la necessità di procurarsi il cibo al fine di conservarlo. Uscire dalla tana, anche se faticoso, è produttivo: permette di sorvegliare dal di fuori chiunque si avvicini all’ingresso; questo fa considerare con piacere quanta sicurezza potrebbe dare la tana se si fosse dentro.

L’attesa dell’altro si fa sempre più insistente, percependolo come un nemico vero e proprio.

In questo breve racconto esiste, a nostro avviso, una descrizione puntuale e scrupolosamente Kafkiana dei meccanismi di odio alla base di razzismo ed etnocentrismo. Il bisogno mai appagato dell’unicità al cospetto della propria tana potrebbe essere il desiderio di rispecchiarsi negli occhi della madre; inoltre, il legame fusionale, annullando la possibilità della separazione, porta il protagonista in una prigione mentale che impedisce la sua individuazione. Egli rimane, infatti, senza nome e senza razza.

Il racconto si chiude con la frase del protagonista: “tutto invece è rimasto immutato”; effettivamente, anche dopo la  lettura, si prova una forte sensazione che nulla sia cambiato, unita ad una sottile inquietudine. Cosa potrebbe mai cambiare se il protagonista non ha volto, forma, nome, razza, identità? Di fronte ad una percezione di sé compromessa, l’individuo rimane vittima di un forte sentimento di frustrazione.

La tana appare sì come un rifugio, ma al tempo stesso, anche una condanna a morte: nella sua essenza claustrofilica esiste il dramma di una esistenza narcisistica che, non permettendo la relazione con l’altro, si è impregnata di un odio continuo verso chiunque possa spezzare le catene della “prigionia”. In una tale situazione, non può esistere altra via che alimentare e dirigere l’odio verso un oggetto estraneo alla tana. Ciò permette di non poter mai verificare l’esistenza di un nemico che, tutt’altro che esterno, sembra piuttosto essere “interno” .

Adoperandoci in un salto di parecchi anni, consideriamo degno di nota l’articolo di Antonio Alberto Semi “Cultura ed Odio: un punto di vista Psicoanalitico” (Semi, 1999) in cui lo psicoanalista offre una sua ipotesi riguardo la configurazione del sentimento di odio a livello culturale.

Cultura proviene dalla radice latina “colere” che significa coltivare (coltivare la madre terra) e, già in età Romanica, assume significato pressoché univoco: la propensione dell’uomo al culto verso gli Dei.

Al giorno d’oggi, con il termine cultura si indica quell’insieme di costumi, credenze, atteggiamenti, valori, ideali ed abitudini delle diverse popolazioni o società del mondo. Senza correre il rischio di sconfinare in campi di competenza sociologica, Semi ci ricorda che, prima ancora di essere un elemento di massa, la cultura è un oggetto dell’apparato psichico che risponde a peculiari caratteristiche:  – nonostante condizioni incessantemente la vita dell’individuo, rimane costantemente in secondo piano;  – può essere osservato solo usandolo;  – la sua rappresentazione concorre a costituire una identità.

Si potrebbe proporre che la cultura, come entità psichica, è un “oggetto tipicamente narcisistico intento a soddisfare condizioni imposte dalle esigenze conservative dell’IO” (Semi, 1999).

Ma come si connette l’odio alla cultura? Cosa spinge l’uomo a disprezzare fino ad odiarle (come il protagonista della Tana) le culture che suppone “diverse” dalla propria?

Freud, interrogandosi sull’origine del sentimento di odio, in quanto opposto all’amore e, allo stesso tempo, inscindibile da esso, afferma: “L’odio, nella sua relazione con gli oggetti, è più vecchio dell’amore. Deriva dal ripudio del mondo esterno da parte del primitivo narcisismo dell’Io” (Freud, 1915). Il narcisismo primario designa, in ordine cronologico, il primo narcisismo: quello in cui il bambino prende se stesso come oggetto di investimento libidico, poiché non differenzia ancora sé e l’oggetto esterno, ed è caratterizzato dall’onnipotenza dei suoi pensieri. In questo stadio, l’odio deriva dal rifiuto primordiale del mondo esterno da parte dell’Io narcisistico. La scoperta dell’oggetto dà origine a sentimenti di odio: “Quando, durante lo stadio del narcisismo primario, l’oggetto fa la sua comparsa, il secondo opposto dell’amore, vale a dire l’odio, raggiunge anch’esso il suo sviluppo” (Freud, 1915). Esiste quindi una connessione tra stadio narcisistico (piacere) e distruttività verso l’oggetto esterno (odio). Possiamo ipotizzare che “il piacere si identifica con la situazione narcisistica, mentre il dolore con la relazione d’oggetto.” (Mancia, 2010). Nella relazione oggettuale edipica, il padre entra nel rapporto diadico madre-figlio, ridimensionando dolorosamente la posizione onnipotente del bambino: egli cerca di mostrarsi come “oggetto altro” agli occhi del bambino e, perciò, non può che essere percepito da lui come fonte di una potenziale sopraffazione, rendendosi inevitabilmente contenitore del sentimento di odio (Freud, 1915).

Tornando a Semi, egli propone una lettura dell’odio culturale in chiave nevrotica: lo spostamento del sentimento primario di odio nei confronti del padre verso le culture diverse dalla nostra. In questa ottica, il diverso viene percepito dall’individuo come minaccia al suo “equilibrio” narcisistico. Il movimento innescato dall’elemento eterogeneo, assumendo la forma di pericolo, deve essere  debellato.

Rosenfeld (1965) considera che la pulsione di morte si manifesta come un processo distruttivo nei confronti degli oggetti. Egli parte dall’osservazione che gli stati narcisistici sono caratterizzati da un non riconoscimento della separazione tra Sé e l’oggetto. Nel corso di una evoluzione psichica, l’individuo, nell’atto di percepire l’oggetto come distinto da Sé, lo attacca rinforzando l’aggressività; così, Rosenfeld introduce il “narcisismo distruttivo”: una vera e propria modalità relazionale, caratterizzata da onnipotenza, invidia, voracità e gelosia. Nel 1972, afferma che l’aspetto distruttivo del narcisismo consiste, specificatamente, nell’idealizzazione delle parti distruttive del Sé, dirette sia contro ogni rapporto oggettuale positivo, sia contro ogni parte del Sé che sente il bisogno di un oggetto con il desiderio di dipendere da esso. Le parti distruttive rimangono scisse e proiettate all’esterno impedendo, di fatto, il rapporto con l’altro, per mezzo di una continua svalutazione ed aggressione. La distruttività si manifesta non appena l’individuo entra in contatto con un oggetto percepito come separato da Sé: ciò lo costringe a riconoscere, in qualche modo, che è l’oggetto a contenere le “qualità ipervalutate” attribuite precedentemente alla propria capacità. Quando è riconosciuta la bontà dell’oggetto, l’invidia si fa più violenta diventando così “desiderio di distruzione”.

Il “narcisismo distruttivo” sembra essere altamente organizzato nella personalità dell’individuo: Rosenfeld lo paragona ad “una banda di delinquenti dominata da un capo”, che si accerta costantemente che ognuno faccia il suo lavoro per rendere l’associazione criminale sempre più efficiente. Questo tipo di organizzazione rafforza gli aspetti distruttivi, cerca sempre di essere dominante e, soprattutto, ha lo scopo di far sì che tutto rimanga così com’è. Proprio come accade nel racconto di Kafka, “La tana”.

Se l’utero materno è protettivo nei confronti del feto, per l’adulto può risultare una prigione mentale. Con le dovute proporzioni, sia quantitative che qualitative, ogni individuo è intento a rendere la propria “tana” resistente ad un cambiamento che il diverso (o presunto tale) può arrecare. Ognuno di noi è spinto dal bisogno narcisistico di confondersi nella propria omofilia. È qualcosa che ci riguarda da vicino, che riguarda la nostra stabilità emotiva: quel lato oscuro che ci presenta il conto ogni volta che contattiamo lo “sconosciuto” che è in noi. L’odio nei confronti dell’altro, oltre ad indicare un penoso non riconoscimento di sé, innesca un impoverimento ulteriore delle potenzialità dell’uomo. In questa continua dialettica Odio/Amore, confidiamo che l’umanità tutta, possa dedicarsi al desiderio di conoscere l’ignoto, piuttosto che alla pretesa di distruggerlo.

Non “odiateci” se, per incompetenza di gioventù, abbiamo poco approfondito certi concetti psicoanalitici e dato per scontato passaggi importanti, ma piuttosto, traetene lo stimolo per conoscere un nuovo panorama che si è potuto presentare ai nostri occhi.

Articolo pubblicato da “Rivista Impronte, Volti e Risvolti della psicologia” nel numero 17 “L’Odio” del 2011 – “Sezione primavera”
www.rivistaimpronte.it

Autori:    Anna Di Tullio   –   Daniele La Licata

 

Bibliografia:

FREUD S. (1920) Al di là del principio del piacere. Opere vol. 9. Bollati Boringhieri.

FREUD S. (1922) L’IO e l’ES. Opere vol. 9. Bollati Boringhieri.

FREUD S. (1915) Pulsioni e loro destini. Opere vol. 8. Bollati Boringhieri.

KAFKA F. (1923) La Tana. Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi. Newton e Compton.

KAFKA F. (1919) Lettera al Padre. Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi. Newton e Compton.

MANCIA M. (2010) Narcisismo. Il presente deformato allo specchio. Bollati Boringhieri.

ROSENFELD H. A. (1965 ) Stati psicotici. Armando Editore.

ROSENFELD H. A. (1972) L’accostamento clinico alla teoria psicoanalitica degli istinti di vita e di morte: una ricerca sugli aspetti aggressivi del narcisismo. Rivista di Psicoanalisi. Numero 2.

SEMI A. A. (1983) Cultura e sé. Padova, CEDAM.

SEMI A. A. (1999) Cultura e Odio: Un punto di vista psicoanalitico. Rivista di Psicoanalisi. Numero 4.

 

 

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